29/04/2025 strategic-culture.su  7min 🇮🇹 #276377

Guerra commerciale: gli Stati Uniti alle prese con la rappresaglia cinese e il disallineamento giapponese

Giacomo Gabellini

Mentre viene sempre più palesandosi il significato smaccatamente anti-cinese della politica protezionista portata avanti finora dall'amministrazione Trump,  propensa ad abbassare le barriere tariffarie nei confronti dei Paesi disposti a recidere o quantomeno limitare la cooperazione con la Cina, Pechino intensifica il tenore della rappresaglia. 

Alle  ritorsioni tariffarie (imposte contro gli Usa e  minacciate a tutti coloro che si allineeranno alla loro politica), alla  svalutazione dello yuan-renminbi, all' introduzione di restrizioni in materia di export di materiali critici verso gli Stati Uniti e all' interruzione degli acquisiti di Gas Naturale Liquefatto statunitense, Pechino ha affiancato una manovra di pressione  focalizzata sul "nervo scoperto" del mercato obbligazionario statunitense. I dati  indicano che, nel mese di febbraio, la Repubblica Popolare Cinese deteneva 784,3 miliardi di dollari di titoli di Stato statunitensi, a cui vanno sommati ulteriori 260 miliardi facenti capo ad Hong Kong.

Un ammontare decisamente cospicuo, riciclabile come formidabile strumento di ricatto nei confronti del governo statunitense, che nel 2024 ha  pagato qualcosa come 1,12 trilioni di dollari di interessi sul debito federale. In tali condizioni, un "semplice" alleggerimento delle detenzioni cinesi determinerebbe automaticamente un ulteriore rialzo dei tassi di interesse, portando i conti statunitensi completamente fuori controllo. L'ipotesi è stata puntualmente formulata dagli operatori di mercato, i quali hanno impostato una imponente manovra speculativa fondata proprio sulla convinzione che Pechino stesse scaricando una massa considerevole di T-Bond in suo possesso. Lo ha 𝕏 dichiarato urbi et orbi il noto venture capitalist Chamath Palihapitiya (convinto sostenitore di Trump), basandosi sulle "voci di corridoio" circolate nell'ambiente subito dopo il cosiddetto "Liberation Day".

Stesso discorso si applica al Giappone, i cui istituti privati hanno  venduto in pochi giorni oltre 21 miliardi di dollari di obbligazioni internazionali. Il fenomeno è stato trainato dai fondi pensione nipponici, i quali si sono affrettati a scaricare parte rilevante delle proprie detenzioni obbligazionarie per compensare i crolli delle azioni statunitensi in loro possesso scatenati dalle tariffe di Trump. Tomoaki Shishido, senior rates strategist di Nomura Bank, ha  avanzato il sospetto che una quota assai cospicua delle obbligazioni oggetto di sell-off fosse costituita proprio da Treasury Bond e obbligazioni di agenzie statunitensi.

Risultato complessivo: l'8 aprile, i rendimenti dei titoli del Tesoro statunitensi a 5 anni sono saliti del 2%, al 3,918%; quelli dei titoli a 10 anni, del 3,2%, al 4,291%; quelli dei titoli a 30 anni, del 3,6%, al 4,762%. All'aumento degli interessi è corrisposta una caduta significativa del corso del dollaro, che ha  perso terreno nei confronti degli altri tradizionali "beni rifugio" come il franco svizzero e - soprattutto - l'oro.

Una situazione pressoché identica si è riprodotta il 21 aprile, in seguito all'attacco  sferrato da Donald Trump contro il presidente della Federal Reserve Jerome Powell per la sua reiterata aderenza a politiche monetarie restrittive. Le minacce di licenziamento - poi  ritirate in fretta e furia - formulate nei suoi confronti, interpretate come una contestazione dell'indipendenza della Banca Centrale, hanno comportato un nuovo aumento dei rendimenti dei T-Bond (i titoli a 10 anni hanno varcato la soglia critica del 4,35%) e una ridiscesa del dollaro,  giunto a un nuovo minimo da tre anni.

Parallelamente, la Cina sta rendendosi protagonista di una brusca  ritirata dal comparto del private equity statunitense, il cui valore complessivo supera ormai i 4,7 trilioni di dollari. Più specificamente, i fondi sovrani cinesi hanno interrotto i flussi di liquidità verso soggetti del settore con sede negli Stati Uniti, anche qualora conducano operazioni con veicoli non statunitensi. Il "nuovo corso" imposto da Pechino vincola i fondi sovrani dell'ex Celeste Impero non solo a evitare di contrarre nuovi impegni, ma anche di ritirarsi da operazioni già avviate ma non ancora completate. Si tratta di un cambio di registro gravido di conseguenze, alla luce del volume ragguardevolissimo di investimenti sostenuti nel corso degli anni dai fondi sovrani cinesi in colossi del private equity statunitensi quali Blackstone, Carlyle Group, Global Infrastructure Partners, Thoma Bravo e Vista Equity. L'iniziativa cinese, ha  dichiarato il presidente di Blackstone Jonathan Gray, sta innescando anche in questo caso un pericoloso "effetto domino", spingendo fondi pensione sia europei che canadesi a riconsiderare la loro consolidata propensione a investire nel private equity statunitense.

Il tenore della rappresaglia cinese va quindi incrementando, mentre il Giappone tradisce ancora una volta le aspettative dell'amministrazione Trump proclamando la propria indisponibilità ad aderire a qualsiasi blocco geoeconomico anti-cinese. Lo hanno  comunicato al «Japan Times» anonimi funzionari dotati di familiarità con la questione, a detta dei quali il Giappone sta lavorando per chiudere un accordo con gli Stati Uniti in materia tariffaria prima che scada la tregua di 90 giorni dichiarata da Trump, senza tuttavia accettare il proprio coinvolgimento «in alcuno sforzo degli Stati Uniti volto a massimizzare la pressione commerciale sulla Cina». La rilevanza capitale rivestita dalla Cina, sia come mercato di destinazione che in qualità di fonte primaria di approvvigionamento di beni e materia prime, preclude qualsiasi prospettiva di allineamento giapponese alla politica dello scontro con Pechino che l'amministrazione Trump sembra intenzionata a portare avanti. La presa di posizione del governo di Tokyo risulta coerente con gli impegni già assunti a Seul dal Giappone, che di concerto con Cina e Corea del Sud ha pianificato il rafforzamento della cooperazione reciproca. A margine del vertice, il ministro dell'Industria sudcoreano Ahn Duk-geun, il suo omologo giapponese Yoji Muto e il ministro del Commercio cinese Wang Wentao hanno  posto l'accento sulla necessità di «portare avanti le discussioni con l'obiettivo di accelerare i negoziati verso un accordo trilaterale di libero scambio globale ed equo». Il fine ultimo sembra quindi vertere sulla creazione di un fronte comune che assicuri alle imprese regionali esposte all'offensiva tariffaria di Washington, saldamente integrate in catene del valore e di approvvigionamento ormai consolidate, la possibilità di operare all'interno di un ecosistema di stabilità.

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