20/11/2025 strategic-culture.su  9min 🇮🇹 #296782

L'Aquila e il dragone: il difficile sentiero di Trump per riavvicinarsi all'Asia.

Daniele Lanza

Da poche settimane si è concluso il rapido tour del presidente Donald Trump in estremo oriente: molti i leader incontrati e i colloqui sostenuti, in un epilogo tenutosi nella Corea del Sud in occasione del vertice annuale di cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC)

Da poche settimane si è concluso il rapido tour del presidente Donald Trump in estremo oriente: molti i leader incontrati e i colloqui sostenuti, in un epilogo tenutosi nella Corea del Sud in occasione del vertice annuale di cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC). Senza dubbio un momento complesso da gestire per il leader statunitense, il quale si ritrova a dover riaffermare il ruolo della potenza a stelle e strisce in una fase storica che vede un progressivo restringimento della sua tradizionale dominanza globale di fronte all'emergere costante del blocco alternativo all'occidente euro-americano, ossia il BRICS (il cui fulcro è l'Asia e che a sua volta sempre più inserito nel sud globale e precisamente sul continente africano).

Per Washington è imperativo agire, partendo quindi proprio dal continente asiatico: questo nel concreto ha significato in primissimo luogo arringare gli alleati come Corea del Sud e Giappone, ma soprattutto trovare una via di compromesso che sul momento ammorbidisca il confronto con il gigante cinese, il rapporto col quale è assolutamente cruciale in tutta l'area euroasiatica, dal Pacifico sino allo scacchiere geopolitico europeo. Ovvio pertanto che il momento più critico di tutto l'evento sia stato il tanto atteso bilaterale tra Trump e Xi Jinping.

Ad un'analisi attenta l'operazione è sicuramente molto complessa, per ragioni di fondo che hanno a che fare con gli equilibri globali più importanti. La verità - inesprimibile - è che Washington ha bisogno di Pechino in vista dell'imponderabile crisi politico militare in cui versa l'Europa, oramai compromessa sul fronte russo/ucraino e dal quale non riesce più a disimpegnarsi: la Casa Bianca vede in Pechino l'unico mediatore che potrebbe accomodare la questione, ma gli ostacoli in merito sono assai prodondi e probabilmente insolubili. Una riflessione onesta sulla storia della seconda metà del 900 spiega in realtà molte cose: il fatto è che per 50 anni la cordialità sino-americana era fondata sul non espresso anti sovietismo. La Repubblica Popolare Cinese malgrado la fratellanza ideologica con l'Urss le era anche rivale sul piano geopolitico (equivoco era deflagrato col grave strappo geopolitico a seguito dell'incidente sull'Ussuri, una guerra non dichiarata di 10 giorni tra Cina e Urss, 1969), dissidio subito sfruttato dall'amministrazione Nixon che riconobbe la Cina ufficialmente nel 1972, vedendo in essa un'improbabile quanto utile pedina ad oriente contro la Russia. In altre parole la politica estera americana di allora intuì l'esistenza di crepe nel sistema di alleanze del mondo socialista, nelle quali incunearsi a dovere: questa la sola ed unica ragione dell'avvicinamento alla Cina di Mao (come alla Germania orientale, riconosciuta il medesimo anno).

Oggi, mezzo secolo dopo, il pianeta è profondamente cambiato: lo stato cinese ha raggiunto una forza economica senza pari, tanto da tener testa agli USA stessi - che si trovano davanti l'unico vero rivale di forza equivalente mai avuto da 100 anni a questa parte - mentre la Russia è storicamente depotenziata territorialmente e geopoliticamente rispetto a cosa era l'Unione Sovietica.

Male tutto questo per Mosca ? No, tutto l'incontrario paradossalmente: poichè la Cina sentendo di non aver più un pericoloso rivale ai propri confini, ha potuto accettarlo come alleato e partner geostrategico, per la prima volta in secoli di storia. La Cina odierna pertanto accoglie lo stato russo come amico, con un grado di fiducia come non era mai stato possibile in precedenza.

Per la Russia tutto questo si traduce in un chiaro vantaggio: un enorme fratello stavolta benevolo ai confini, le cui risorse demografiche e scientifiche sono complementari alle proprie, offrendo pertanto al paese un appoggio che consenta di affrancarsi parzialmente dalla dipendenza economica nei confronti dell'occidente intero e quindi intraprendere una politica maggiormente decisa nei riguardi dei tentativi di espansione verso est dell'alleanza atlantica (come si è visto).

Gli equilibri descritti sopra rappresentano naturalmente un rompicapo per la politica estera americana, perchè tutto ad un tratto diventa difficilissimo separare Mosca e Pechino e quindi mminare l'unità euroasiatica da sempre temuta (dalla prospettiva geopolitica di lungo termine a stelle e strisce sono tuttora i due principali antagonisti planetari che è meglio tenere divisi: le cose non sono cambiate di molto rispetto a come Truman le descriveva verso il 1950: "L'America ha due nemici mortali: la Cina di Mao e L'Unione Sovietica". Poco importa che oggigiorno non vi siano più nel'Urss nè Mao).

La più recente partnership sino-russa è un nuovo equilibrio basato su un contesto assai più stabile che nemmeno gli intrighi usuali delle amministrazioni washingtoniane possono alterare al momento, nè ci riuscirà Trump che si trova nel momento più difficoltoso del proprio mandato: se da un lato incassa un successo su scala minore in Palestina, il fronte maggiore - quello europeo che è al medesimo livello del primo conflitto mondiale - rimane aperto.

Le considerazioni di fondo appena fatte ci portano al momento presente: non riuscendo il presidente americano a mediare una pace in Ucraina a causa dell'opposizione massimalista di Zelensky (o meglio, delle forze nazionaliste di cui è espressione), ha dovuto per forza di cose rivolgersi al presidente Vladimir Putin, poichè non ha modo di far maggiore pressione su Zelensky senza perder credito e prestare il fianco ad accuse come quella di non fare l'interesse americano, cosa che i suoi detrattori in patria gli rinfacciano da sempre.

D'altro canto fare pressioni su Mosca o esercitare qualche forma di ricatto o minaccia non è semplice dal momento che quest'ultima già resiste efficacemente alle sanzioni di mezzo mondo industrializzato da quasi 4 anni. Ci si decide dunque a giocare d'astuzia: consapevole il leader americano del grande valore strategico che riveste il partenariato economico sino-russo per il Cremlino, cerca dunque di rivolgersi direttamente al leader cinese affinchè faccia pressioni su quello russo e portarlo ad accettare una soluzione del conflitto più compatibile con gli interessi occidentali.

In pratica anzichè l'incontro con Putin a Budapest - che sarebbe stato inutile visto il rifiuto irremovibile di Zelensky di cedere al piano di pace ribadito da Lavrov - cerca allora di rivolgersi a Xi Jinping per ottenere aiuto a fare sì che sia la Russia a cedere alle condizioni ucraine di pace. In un certo senso, quello che doveva essere il meeting Trump-Putin, è stato invece il meeting Trump-XI, che tuttavia risulta viziato da un imbarazzante paradosso da risolvere: Trump si rivolge ad un nemico degli USA (la Cina) affinchè questi faccia pressione su un altro nemico (la Russia), e malgrado questi ultimi due siano legati da una solida partnership, avversa gli stessi USA. Una autentica contraddizione in termini e senza contare il fatto che tra le iniziative dell'amministrazione americana in corso vi erano imponenti dazi minacciati contro la Cina medesima. Alla luce di questo, Trump può ancora domandare favori di questo genere a Pechino ? Fare leva sulla Cina per fare pressione sulla Russia - e idealmente usare l'una contro l'altra - può ricordare per l'appunto le tattiche di Nixon e dei suoi successori durante la guerra fredda, ma non tiene conto del fatto che le circostanze siano radicalmente mutate e semmai denota il fatto che l'occidente americano abbia difficoltà a rassegnarsi a tutto questo, ad un mondo differente da quanto lo si ricordava.

D'altro canto la questione dei dazi e dei rapporti commerciali in generale si è apparentemente risolta, ma solo sul breve periodo, senza una soluzione definitiva, cosa che ha portato gli osservatori imparziali e gli economisti ad affermare che il bilaterale tra il presidente cinese e quello americano non sia stato un successo. Al massimo è stata siglata una tragua temporanea, vale a dire che Donald Trump ha portato a casa un risultato inferiore rispetto alle sue aspettative e sicuramente non sufficiente in vista dello scopo che si era prefissato ossia ottenere il supporto cinese contro Mosca. In breve la Cina non interferirà minimamente sulle decisioni che il leader russo prenderà in merito all'Ucraina.

In conclusione - come ricordato sin dal principio - quella tentata da Donald Trump è stata una mossa audace e illusoria, per ragioni di fondo, eppure anche obbligata: non potendo chiedere all'occidente di isolare la Russia (per il fatto che l'intero occidente è già schierato contro Mosca, la quale dal canto suo ha imparato a vivere senza l'Europa e Gb) non rimaneva che una sola carta e cioè rivolgersi alla cintura di paesi amici ed alleati di Mosca (quelli del Brics) imponendo anche a questi ultimi sanzioni nel caso avessero continuato ad acquistare petrolio russo. Tali paesi tuttavia sono, per l'appunto, geopoliticamente vicini a Mosca, affini alla Russia nella visione di fondo di un mondo multipolare e per nulla facili da minacciare o manipolare per peso geostrategico (Cina ed India in particolare): il tutto rende difficoltoso - e persino imbarazzante - domandare favori che prevedano andare contro gli interessi di un alleato al quale si è legati da partenariati strategici e visioni del mondo comuni. Allo stesso modo non sarebbe prudente la tattica della minaccia diretta, che inasprirebbe il dialogo quando invece ce n'è maggiormente bisogno.

In definitiva, la strategia di Washington sembrerebbe ambiziosa, ma nei fatti il leader statunitense rientra dal grande meeting di Busan con poco in mano: la Cina (quanto l'India) non ha dato alcuna promessa formale di rinunciare al petrolio russo, così come il Giappone - più stretto alleato degli USA in estremo oriente - ha declinato al momento l'ipotesi di rinunciare al gas che importa dalla Federazione Russa, per concludere con la Corea del Sud (con la quale le trattative d'affari sono risultate meno lineari del previsto). In breve non si è ottenuto nulla dalla Cina, e si sono registrate difficoltà persino con gli alleati tradizionali: il tanto atteso incontro Trump-XI Jinping non ha concluso molto e a Washington tocca proclamare un successo, che in realtà è una specie di nulla di fatto. Cina e USA attenuano le tensioni ridefinendo il proprio rapporto in una serie di intese commerciali che non vedono alcun vincitore sostanzialmente, ma solo puntellano la situazione onde evitare conflitti troppo marcati: infine sembra che del fronte ucraino non si sia nemmeno parlato, come si presagiva dalla breve durata del colloquio tra Trump e Xi.

Non si può che dedurne come anche il piano di far pressione su Mosca - attraverso Cina ed altri paesi extraeuropei - al fine di ottenere una vittoria diplomatica che salvi l'Ucraina (ormai sconfitta sul campo) sia sostanzialmente fallita: al suo posto rimane l'incertezza su come si svilupperà il futuro rapporto tra la potenza americana ed un mondo sul quale ha una presa sempre meno stabile.

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